Data: 7 giugno 2001
Giornale: Il Giornale
di Antonio Lodetti
Fusioni di stili e di idee nel nuovo cd della band napoletana
MILANO – Parlano ancora con l’accento di Totò e De Filippo anche se la loro musica parte dai vicoli di Napoli per integrarsi con i suoni di tutto il mondo. Non è un caso che si chiamino Almamegretta, ovvero «anima migrante», un’anima bizzosa e indipendente che raccoglie le tradizioni etniche con le martellanti dell’elettronica. Del resto la fusion partenopea ha radici lontane: quelle d’ o’ maestro Carosone, che con decenni d’anticipo sulla world music conciliò il respiro pulsante dello swing con la tarantella, la melodia mediterranea con il blues e la cultura araba. Quelle via via dei Di Capri, Daniele, dei redivivi Napoli Centrale di James Senese. Ma gli Almamegretta, che pubblicano in questi giorni il nuovo album Imaginaria, nel rispetto della tradizione rivendicano la loro autarchia stilistica. Meno spazio all’elettronica e ritorno agli strumenti veri, alle tastiere e persino alle chitarre acustiche, con uno sguardo pornmobile.onlinesempre più ampio sui suoni del mondo. «Oggi va di moda fondere diverse culture - dice Raiz - e mettere insieme linguaggi musicali diversi. Bisogna stare attenti a non cadere nelle trappole del music business che vogliono a tutti i costi musica di tendenza».
Come si evitano le trappole?
«Bisogna capire l’essenza dei suoni con cui ci si confronta; così ascoltando un canto popolare africano o un brano della santeria cubana si riesce a trasmettere lo stesso tipo di sensazione con strumenti moderni. L’incontro tra vari generi non è un gioco e i napoletani dei bassi lo sanno bene».
Cioè?
«Musicalmente deve partire dalla voglia di frantumare qualunque barriera e non, come accade per molti artisti, da un’imbellettamento di facciata per mascherare scarsità di idee».
A Napoli c’é una scena molto attiva e terreno fertile per queste sperimentazioni.
«Molte città sono morte artisticamente. Napoli è una città viva, anche perché si vive gomito a gomito con gli immigrati. In certi vicoli dove regna la miseria arabi, africani e italiani vivono le stesse situazioni difficili e si comprendono meglio. Da lì nasce la rabbia e le canzoni dei gruppi come 99 Posse e molti altri. Tutti insieme cerchiamo lentamente di cambiare qualcosa».
E le vostre nuove idee?
«Lavorando in studio con Mauro Pagani abbiamo recuperato le atmosfere tipiche degli anni ‘70 con strumenti come le chitarre acustiche ma anche i vecchi sintetizzatori. Spaziamo dalla techno alla melodia napoletana ma con l’approccio tipico dei ‘70, dove c’era grande libertà creativa».
Oggi c’è meno libertà creativa?
«Sì, il gusto medio è sempre più piatto e domina la cultura della televisione e degli ascolti. Devi rientrare in certi parametri e scrivere canzoncine di tre minuti per avere un certo tipo di successo».
Che a voi non interessa.
«No, certo, per noi è importante il riconoscimento di artisti come Asian Dub Foundation o Orchestral World Groove con cui abbiamo collaborato. Soprattutto questi ultimi sono un perfetto esempio di novità e integrazione. Sono immigrati pakistani che vivono a Londra e propongono musica assolutamente nuova partendo da elementi già costituiti: suoni anglo-pakistani».
Sempre controcorrente?
«Prima di tutto liberi. I nostri testi puntano al sociale ma non alla politica. Evitiamo gli slogan anche se arrivano più facilmente al pubblico».
Per questo avete scelto di cantare in diverse lingue.
«Cantare solo in italiano è limitativo. Il nostro è un linguaggio universale che coinvolge sia l’inglese che vari dialetti. Anche chi non capisce i testi può dare una sua interpretazione che nasce dall’emotività».
I vostri spettacoli dal vivo sono molto coinvolgenti.
«Sì, saremo in tournée tutta l’estate. Proporremo i pezzi del disco nuovo e quelli vecchi riarrangiati, perché abbiamo grande rispetto per il pubblico».
Aggiornato Sabato, 10 Settembre 2005
Giornale: Il Giornale
di Antonio Lodetti
Fusioni di stili e di idee nel nuovo cd della band napoletana
MILANO – Parlano ancora con l’accento di Totò e De Filippo anche se la loro musica parte dai vicoli di Napoli per integrarsi con i suoni di tutto il mondo. Non è un caso che si chiamino Almamegretta, ovvero «anima migrante», un’anima bizzosa e indipendente che raccoglie le tradizioni etniche con le martellanti dell’elettronica. Del resto la fusion partenopea ha radici lontane: quelle d’ o’ maestro Carosone, che con decenni d’anticipo sulla world music conciliò il respiro pulsante dello swing con la tarantella, la melodia mediterranea con il blues e la cultura araba. Quelle via via dei Di Capri, Daniele, dei redivivi Napoli Centrale di James Senese. Ma gli Almamegretta, che pubblicano in questi giorni il nuovo album Imaginaria, nel rispetto della tradizione rivendicano la loro autarchia stilistica. Meno spazio all’elettronica e ritorno agli strumenti veri, alle tastiere e persino alle chitarre acustiche, con uno sguardo pornmobile.onlinesempre più ampio sui suoni del mondo. «Oggi va di moda fondere diverse culture - dice Raiz - e mettere insieme linguaggi musicali diversi. Bisogna stare attenti a non cadere nelle trappole del music business che vogliono a tutti i costi musica di tendenza».
Come si evitano le trappole?
«Bisogna capire l’essenza dei suoni con cui ci si confronta; così ascoltando un canto popolare africano o un brano della santeria cubana si riesce a trasmettere lo stesso tipo di sensazione con strumenti moderni. L’incontro tra vari generi non è un gioco e i napoletani dei bassi lo sanno bene».
Cioè?
«Musicalmente deve partire dalla voglia di frantumare qualunque barriera e non, come accade per molti artisti, da un’imbellettamento di facciata per mascherare scarsità di idee».
A Napoli c’é una scena molto attiva e terreno fertile per queste sperimentazioni.
«Molte città sono morte artisticamente. Napoli è una città viva, anche perché si vive gomito a gomito con gli immigrati. In certi vicoli dove regna la miseria arabi, africani e italiani vivono le stesse situazioni difficili e si comprendono meglio. Da lì nasce la rabbia e le canzoni dei gruppi come 99 Posse e molti altri. Tutti insieme cerchiamo lentamente di cambiare qualcosa».
E le vostre nuove idee?
«Lavorando in studio con Mauro Pagani abbiamo recuperato le atmosfere tipiche degli anni ‘70 con strumenti come le chitarre acustiche ma anche i vecchi sintetizzatori. Spaziamo dalla techno alla melodia napoletana ma con l’approccio tipico dei ‘70, dove c’era grande libertà creativa».
Oggi c’è meno libertà creativa?
«Sì, il gusto medio è sempre più piatto e domina la cultura della televisione e degli ascolti. Devi rientrare in certi parametri e scrivere canzoncine di tre minuti per avere un certo tipo di successo».
Che a voi non interessa.
«No, certo, per noi è importante il riconoscimento di artisti come Asian Dub Foundation o Orchestral World Groove con cui abbiamo collaborato. Soprattutto questi ultimi sono un perfetto esempio di novità e integrazione. Sono immigrati pakistani che vivono a Londra e propongono musica assolutamente nuova partendo da elementi già costituiti: suoni anglo-pakistani».
Sempre controcorrente?
«Prima di tutto liberi. I nostri testi puntano al sociale ma non alla politica. Evitiamo gli slogan anche se arrivano più facilmente al pubblico».
Per questo avete scelto di cantare in diverse lingue.
«Cantare solo in italiano è limitativo. Il nostro è un linguaggio universale che coinvolge sia l’inglese che vari dialetti. Anche chi non capisce i testi può dare una sua interpretazione che nasce dall’emotività».
I vostri spettacoli dal vivo sono molto coinvolgenti.
«Sì, saremo in tournée tutta l’estate. Proporremo i pezzi del disco nuovo e quelli vecchi riarrangiati, perché abbiamo grande rispetto per il pubblico».
Aggiornato Sabato, 10 Settembre 2005