Data: gennaio 1994
Giornale: Rockerilla
di Paolo Ferrari
ANIMA E DUB
Dub e soul, tradizione napoletana e reggae, percussioni africane e toasting: i napoletani Almamegretta amano giocare sul filo del rasoio delle contaminazioni a tutto campo. Magnetici su disco e dal vivo, sono realisti e riflessivi, come un heavy dub, anche nella conversazione.
In Sole il testo fa riferimento a “la mia gente”. Chi è la “vostra gente”, alludete a un referente politico, etnico o a qualcos'altro?
Rais: «È la gente e basta, dico “mia” per esprimere la volontà che la gente, oggi troppo distante, stia più vicina. Può anche essere un riferimento alle persone che ci stanno intorno, ma, in ogni caso, non è da intendere come riferimento etnico, non ha nulla a che vedere con il “my people” che si usa in Giamaica».
Gennaro: «Rispecchia anche il legame con tutti coloro che vivono come noi e soffrono di sfruttamento, repressione. Ovunque».
Essendo musicalmente e operativamente molto aperti verso pubblico e territorio extra-napoletani, non temete che l'uso massiccio del dialetto possa rappresentare un limite?
Rais: «Per noi il dialetto è naturale: io parlo così almeno per il 70%, ed è logico che ci canti pure, tanto più in relazione al tipo di musica che facciamo, che, essendo molto ricca di melodie mediterranee, si lega benissimo al napoletano».
Gennaro: «Del resto, non è un dialetto qualsiasi: avendo una tradizione centenaria di canzoni e cultura popolare molto conosciuta in tutta Italia, ha più possibilità di essere capito, è una lingua diventata familiare grazie al successo nazionale di tantissimi artisti di Napoli».
Questa grande riconoscibilità e diffusione della tradizione popolare napoletana comporta anche dei rischi di opportunismo, come le operazioni di basso profilo di cui è protagonista Renzo Arbore. Cosa pensate del suo approccio?
Rais: «Non è un tipo di operazione che ci interessa, si tratta dell'ennesima riproposizione di Napoli in veste oleografica, cinefila. Come si fa a cantare, oggi a Napoli, "chi ha dato ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto ha avuto"? Più in generale, non ci interessano le radici nude e crude, siamo dell’idea che tutto quello che ci è arrivato dalla tradizione musicale napoletana ci appartenga esattamente quanto il reggae e il soul che abbiamo sentito su radio e dischi. Il nostro lavoro consiste esattamente in questa continua contaminazione».
Alcuni elementi di questo crossover sono facilmente comprensibili: le sonorità arabe e africane hanno un respiro storico evidente nel sud, il reggae e il soul sono assai diffusi da parecchi anni in Italia. Ma come mai al centro del vostro sound c’è uno stile amatoriale e specifico come il dub?
Rais: «Amiamo il dub come musica ipnotica, che nell’apparente crudezza e ripetitività della sua struttura nasconde una ricchezza enorme: quella di far girare il tempo sempre allo stesso modo, in un’atmosfera di rilassatezza e tranquillità per chi lo ascolta. Siamo convinti che questo sia lo stato d’animo in cui si diventa più ricettivi, in cui le persone riescono a pensare di più e meglio. È il motivo per cui ci siamo orientati al dub fin dall’inizio, benché avessimo problemi di strumentazione. L'arrivo del nuovo fonico è stato determinante, è uno di quei tipi che sanno far parlare le macchine. Adesso riusciamo a fare la musica che vogliamo, che è di per sé un 'messaggio', nel senso che il nostro lavoro è concepito come reciprocità tra testo e suono: se, di solito, le parole danno significato alla musica, può anche verificarsi il contrario, con il significato del testo da ricercare nel sound che lo accompagna».
Le vostre due canzoni più conosciute, "Figli di Annibale" e "O' buono e o' malamente", sono state inserite nell’album in forma molto introversa, di ricerca più che di lancio pubblicitario. Si può dunque parlare di un disco 'radicale'?
Gennaro: «Ci fa molto piacere che si possa giungere a questa conclusione, figurati che a noi "Anima migrante" è parso un 33 giri per alcuni versi fin troppo pop. Per quanto riguarda Figli di Annibale ci siamo anche preoccupati di smorzame la possibile retorica, temendo che finisse per diventare una sorta di inno equivoco, quasi un richiamo alla gente del sud contrapposta a quella del nord. È il motivo per cui al titolo originale abbiamo aggiunto un punto interrogativo finale: non è una canzone basata su un fatto storico universalmente riconosciuto, ma una provocazione, e tale vorremmo rimanesse».
Oltre alla radice metropolitana, alcune canzoni fanno pensare che gli Almamegretta abbiano una certa suggestione rurale. Che rapporto avete con il mondo contadino?
Gennaro: «Alcuni di noi hanno radici contadine, io sono tra questi. Ci ricordiamo di una cultura che poi è stata completamente distrutta, come in molti altri posti. Il pezzo chiave in questo senso è O' cielo pe' cuscino, dove abbiamo campionato la voce di un uomo che ora non c’è più. Gestiva una 'cantina', cioè una specie di osteria, nei pressi di Napoli, dove la gente si incontrava per bere e raccontarsi le sue storie. Abbiamo trovato questa voce su una raccolta curata da De Simone, l'abbiamo campionata su un pezzo reggaeggiante proprio per superare le apparenti distanze tra esperienze popolari lontane, che ci sembrano sempre legate tra loro da un filo. Noi proviamo a rendere evidente questo sincretismo, gli altri giudicheranno se ci siamo riusciti o no».
Come mai per un disco così legato alla sonorità napoletana vi siete rivolti a un produttore inglese come Ben Young?
Rais: «Non volevamo fare una versione italiana del reggae o del soul o del dub, ma dimostrare che sono linguaggi applicabili anche a armonie e melodie mediterranee. Cercavamo un suono di basso e batteria adatto, da dub inglese per intenderci, e Young era l’ideale, avendo lavorato con Massive Attack. Dopo aver sentito la cassetta è stato due mesi a Roma in studio con noi, dopodiché siamo andati con lui a Londra a rimixare il tutto nel suo studio».
Alcuni passaggi della vostra musica sono riconducibili a uno stile raggamuffin. Non pensate che una buona soluzione per il futuro delle cosiddette “posse” possa essere proprio quella di suonare dal vivo gli strumenti?
Rais: «Certamente. In studio si lavora bene con le macchine; anche noi, che siamo una band, se vogliamo un bel basso a 50 Hz andiamo a cercarlo da qualche parte. Ma dal vivo la 'vibe' di una band è molto meglio dei giradischi. Non ho nulla contro quel modo di suonare, non sono certo tra quelli che distinguono tra musica 'dal vivo' e 'dal morto', ma anche la stessa 99 Posse, quando suona dal vivo supportata dai Bisca, ha più feeling».
Avete visto "Sud"?
Rais: «Sì. I contenuti sono positivi, ma si sente una certa distanza della regia da ciò che succede veramente nel meridione. Lascia un senso di incompiutezza. Come film sul sud mi e piaciuto di più “Il ladro di bambini”.
Finita la chiacchierata, Rais (voce) e Gennaro (batteria) ruggiungono le altre quattro anime migranti. Poco dopo l'ipnosi collettiva è una realtà, nella sala gremita di Hiroshima Mon Amour, a Torino. Stasera è qui, la camera dell'eco.
Aggiornato Sabato, 30 Luglio 2005
Giornale: Rockerilla
di Paolo Ferrari
ANIMA E DUB
Dub e soul, tradizione napoletana e reggae, percussioni africane e toasting: i napoletani Almamegretta amano giocare sul filo del rasoio delle contaminazioni a tutto campo. Magnetici su disco e dal vivo, sono realisti e riflessivi, come un heavy dub, anche nella conversazione.
In Sole il testo fa riferimento a “la mia gente”. Chi è la “vostra gente”, alludete a un referente politico, etnico o a qualcos'altro?
Rais: «È la gente e basta, dico “mia” per esprimere la volontà che la gente, oggi troppo distante, stia più vicina. Può anche essere un riferimento alle persone che ci stanno intorno, ma, in ogni caso, non è da intendere come riferimento etnico, non ha nulla a che vedere con il “my people” che si usa in Giamaica».
Gennaro: «Rispecchia anche il legame con tutti coloro che vivono come noi e soffrono di sfruttamento, repressione. Ovunque».
Essendo musicalmente e operativamente molto aperti verso pubblico e territorio extra-napoletani, non temete che l'uso massiccio del dialetto possa rappresentare un limite?
Rais: «Per noi il dialetto è naturale: io parlo così almeno per il 70%, ed è logico che ci canti pure, tanto più in relazione al tipo di musica che facciamo, che, essendo molto ricca di melodie mediterranee, si lega benissimo al napoletano».
Gennaro: «Del resto, non è un dialetto qualsiasi: avendo una tradizione centenaria di canzoni e cultura popolare molto conosciuta in tutta Italia, ha più possibilità di essere capito, è una lingua diventata familiare grazie al successo nazionale di tantissimi artisti di Napoli».
Questa grande riconoscibilità e diffusione della tradizione popolare napoletana comporta anche dei rischi di opportunismo, come le operazioni di basso profilo di cui è protagonista Renzo Arbore. Cosa pensate del suo approccio?
Rais: «Non è un tipo di operazione che ci interessa, si tratta dell'ennesima riproposizione di Napoli in veste oleografica, cinefila. Come si fa a cantare, oggi a Napoli, "chi ha dato ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto ha avuto"? Più in generale, non ci interessano le radici nude e crude, siamo dell’idea che tutto quello che ci è arrivato dalla tradizione musicale napoletana ci appartenga esattamente quanto il reggae e il soul che abbiamo sentito su radio e dischi. Il nostro lavoro consiste esattamente in questa continua contaminazione».
Alcuni elementi di questo crossover sono facilmente comprensibili: le sonorità arabe e africane hanno un respiro storico evidente nel sud, il reggae e il soul sono assai diffusi da parecchi anni in Italia. Ma come mai al centro del vostro sound c’è uno stile amatoriale e specifico come il dub?
Rais: «Amiamo il dub come musica ipnotica, che nell’apparente crudezza e ripetitività della sua struttura nasconde una ricchezza enorme: quella di far girare il tempo sempre allo stesso modo, in un’atmosfera di rilassatezza e tranquillità per chi lo ascolta. Siamo convinti che questo sia lo stato d’animo in cui si diventa più ricettivi, in cui le persone riescono a pensare di più e meglio. È il motivo per cui ci siamo orientati al dub fin dall’inizio, benché avessimo problemi di strumentazione. L'arrivo del nuovo fonico è stato determinante, è uno di quei tipi che sanno far parlare le macchine. Adesso riusciamo a fare la musica che vogliamo, che è di per sé un 'messaggio', nel senso che il nostro lavoro è concepito come reciprocità tra testo e suono: se, di solito, le parole danno significato alla musica, può anche verificarsi il contrario, con il significato del testo da ricercare nel sound che lo accompagna».
Le vostre due canzoni più conosciute, "Figli di Annibale" e "O' buono e o' malamente", sono state inserite nell’album in forma molto introversa, di ricerca più che di lancio pubblicitario. Si può dunque parlare di un disco 'radicale'?
Gennaro: «Ci fa molto piacere che si possa giungere a questa conclusione, figurati che a noi "Anima migrante" è parso un 33 giri per alcuni versi fin troppo pop. Per quanto riguarda Figli di Annibale ci siamo anche preoccupati di smorzame la possibile retorica, temendo che finisse per diventare una sorta di inno equivoco, quasi un richiamo alla gente del sud contrapposta a quella del nord. È il motivo per cui al titolo originale abbiamo aggiunto un punto interrogativo finale: non è una canzone basata su un fatto storico universalmente riconosciuto, ma una provocazione, e tale vorremmo rimanesse».
Oltre alla radice metropolitana, alcune canzoni fanno pensare che gli Almamegretta abbiano una certa suggestione rurale. Che rapporto avete con il mondo contadino?
Gennaro: «Alcuni di noi hanno radici contadine, io sono tra questi. Ci ricordiamo di una cultura che poi è stata completamente distrutta, come in molti altri posti. Il pezzo chiave in questo senso è O' cielo pe' cuscino, dove abbiamo campionato la voce di un uomo che ora non c’è più. Gestiva una 'cantina', cioè una specie di osteria, nei pressi di Napoli, dove la gente si incontrava per bere e raccontarsi le sue storie. Abbiamo trovato questa voce su una raccolta curata da De Simone, l'abbiamo campionata su un pezzo reggaeggiante proprio per superare le apparenti distanze tra esperienze popolari lontane, che ci sembrano sempre legate tra loro da un filo. Noi proviamo a rendere evidente questo sincretismo, gli altri giudicheranno se ci siamo riusciti o no».
Come mai per un disco così legato alla sonorità napoletana vi siete rivolti a un produttore inglese come Ben Young?
Rais: «Non volevamo fare una versione italiana del reggae o del soul o del dub, ma dimostrare che sono linguaggi applicabili anche a armonie e melodie mediterranee. Cercavamo un suono di basso e batteria adatto, da dub inglese per intenderci, e Young era l’ideale, avendo lavorato con Massive Attack. Dopo aver sentito la cassetta è stato due mesi a Roma in studio con noi, dopodiché siamo andati con lui a Londra a rimixare il tutto nel suo studio».
Alcuni passaggi della vostra musica sono riconducibili a uno stile raggamuffin. Non pensate che una buona soluzione per il futuro delle cosiddette “posse” possa essere proprio quella di suonare dal vivo gli strumenti?
Rais: «Certamente. In studio si lavora bene con le macchine; anche noi, che siamo una band, se vogliamo un bel basso a 50 Hz andiamo a cercarlo da qualche parte. Ma dal vivo la 'vibe' di una band è molto meglio dei giradischi. Non ho nulla contro quel modo di suonare, non sono certo tra quelli che distinguono tra musica 'dal vivo' e 'dal morto', ma anche la stessa 99 Posse, quando suona dal vivo supportata dai Bisca, ha più feeling».
Avete visto "Sud"?
Rais: «Sì. I contenuti sono positivi, ma si sente una certa distanza della regia da ciò che succede veramente nel meridione. Lascia un senso di incompiutezza. Come film sul sud mi e piaciuto di più “Il ladro di bambini”.
Finita la chiacchierata, Rais (voce) e Gennaro (batteria) ruggiungono le altre quattro anime migranti. Poco dopo l'ipnosi collettiva è una realtà, nella sala gremita di Hiroshima Mon Amour, a Torino. Stasera è qui, la camera dell'eco.
Aggiornato Sabato, 30 Luglio 2005